domenica 27 maggio 2018

Marcovaldo

Vivere in città è un supplizio per uno che ama la natura ma cercando affondo la si può trovare nel piccoli angoli come il nostro protagonista.

TITOLO: Marcovaldo
AUTORE: Italo Calvino
EDITORE: Corriere della sera
PAGINE: 144
PREZZO: € 4,90


















TRAMA

1 Funghi in città (Primavera)

Marcovaldo mentre aspetta il tram per andare a lavoro scopre dei funghi cresciuti su una striscia d'aiuola d'un corso cittadino. Crede di poter ritrovare un angolo di natura anche in città, un angolo solo a lui noto, e quando è finalmente arrivato il momento di raccogliere i funghi insieme ai figli, scopre che altre persone sono arrivate prima di lui tra le quali c'era anche Amadigi, uno spazzino occhialuto e spilungone che a Marcovaldo era antipatico da tempo. L'episodio è concluso da una corsa in ospedale, i funghi erano velenosi e i malcapitati rivali nella raccolta si ritrovano tutti accomunati da un identico destino: condividere la stanza d'ospedale.

2 La villeggiatura in panchina (Estate)

Marcovaldo si sente soffocare in casa sua, dove dormono tutti in una sola camera. Nota la panchina nel giardinetto pubblico sotto casa e questa lo fa sognare: si immagina quanto sarà fresco e riposante dormirci tutto da solo. Una notte caldissima prende il suo guanciale e ci va. Ma la panchina è occupata da una coppia che litiga e lui deve aspettare a lungo prima di conquistarla; poi ci sono dei rumori, dei profumi, delle puzze inconsuete che impediscono più di una volta a Marcovaldo di trovare il sonno tanto desiderato. E anche quando riesce ad addormentarsi, si risveglia pieno di dolori alla schiena e al fianco, con i quali deve recarsi al lavoro: è già mattina!

3 Il piccione comunale (Autunno)

Marcovaldo, che aveva fame, cercava di catturare delle beccacce sparpagliando del pane sul terrazzo del condominio, riuscendo però a catturare solo un povero piccione comunale, venendo poi scoperto dall'amministratrice.

4 La città smarrita nella neve (Inverno)

In città è caduta la neve. Marcovaldo è incaricato di spalare il cortile antistante della ditta dove lavora. Marcovaldo sente la neve come amica, come un elemento che annulla la gabbia di muri in cui è imprigionata la sua vita. Con i mucchi di neve Marcovaldo crea strade tutte sue. Trasformato in pupazzo di neve da un carico di tre quintali piombatogli addosso dalle tegole ne esce gonfio ed intasato dal raffreddore. Per una tromba d'aria provocata da uno starnuto di Marcovaldo tutta la neve viene risucchiata in su e il cortile si ripresenta con le cose di tutti i giorni, spigolose ed ostili.

5 La cura delle vespe (Primavera)

Marcovaldo da un ritaglio di giornale (Di anni prima) usato per incartare il panino, scopre come poter curare i reumatismi col veleno d'api; manda così i figli a catturare tante vespe, credendo che l'effetto sia lo stesso, ed allestisce un ambulatorio medico in casa. Sennonché, a causa dell'imprudenza del figlio Michelino, che viene inseguito fino a casa da un nugolo di vespe inferocite, finiranno tutti all'ospedale.

6 Un sabato di sole, sabbia e sonno (Estate)

Marcovaldo va sulle rive del fiume con i suoi figli per fare sabbiature che lo curino dai reumatismi. I figli muoiono dalla voglia di andarsi a buttare nel fiume, ma c'era un cartello con scritto : " Pericolosissimo bagnarsi" poiché si annegava. Marcovaldo, disteso in un barcone, li richiama perché lo ricoprano con sabbia, lasciandogli solo il viso scoperto. Sciolti gli ormeggi, Marcovaldo si ritrova a navigare per il fiume con il sole che batte e, dopo una rapida, atterra su una massa di bagnanti con salvagenti, canotti, ciambelle, materassini, barche. Neanche una goccia d'acqua lo bagnerà.

7 La pietanziera (Autunno)

Per la pausa di mezzogiorno, Marcovaldo si porta il cibo da casa in una pietanziera. A lui viene sempre l'acquolina in bocca ogni volta che svita il coperchio della pietanziera, ma resta sempre deluso perché la moglie Domitilla gli prepara la pietanziera con gli avanzi della sera. Un giorno la moglie ha comprato tante salsicce per motivi suoi e per tre giorni di seguito Marcovaldo si ritrova con le salsicce della sera prima, finché, stufo dalle solite salsicce, baratta il suo cibo con quello di un bambino: fritto di cervello. Però ad un certo punto arriva la governante che protesta, perciò Marcovaldo deve restituire il fritto di cervello al bambino, raccogliere la pietanziera gettata via dalla governante e ritornare al lavoro.

8 Il bosco sull'autostrada (Inverno)

Una sera d'inverno molto fredda, viene a mancare la legna per la stufa. Marcovaldo decide di uscire in cerca di legna ma, trovandosi in città, ne trova molto poca. Al suo ritorno a casa trova il caminetto funzionante: i figli, usciti anch'essi per cercare legna, hanno trovato dei cartelli pubblicitari, e li hanno scambiati per alberi dato che, nati in città, non hanno mai visto un vero bosco. Allora, seguendo le indicazioni dei bambini per il "bosco", Marcovaldo comincia a tagliare con la sega il cartellone ma viene sorpreso dall'agente Astolfo.

9 L'aria buona (Primavera)

Il dottore dice che i bambini di Marcovaldo hanno bisogno di respirare un po' d'aria buona, a una certa altezza, di correre sui prati. Sulla collina della periferia della città c'è l'aria buona. Da lassù la città appare triste e plumbea. Parlando con alcuni degenti del sanatorio che sta sulla collina, Marcovaldo capisce come essi invece desiderino la città, non potendoci tornare a causa della loro salute.

10 Un viaggio con le mucche (Estate)

L'estate in città è particolarmente afosa e Marcovaldo, non riuscendo a dormire nella soffitta troppo angusta in cui vive con tutta la sua famiglia, ascolta i rumori notturni della città. La finestra è aperta, e l'orecchio sensibile del protagonista coglie, nei rumori ovattati dei rari passanti, un sentore di solitudine umana. Marcovaldo si sente solidale nei confronti di chi, come lui, sogna di evadere dall'oppressione urbana, e di alleviare il peso di una condizione economica familiare in bilico. Ed ecco che un suono di campane, un latrato di un cane, un rumore che assomiglia a un muggito, accendono la curiosità del manovale che, accompagnato dai figli, si precipita in strada per assistere a un evento inusuale: una mandria di mucche che attraversano la strada, guidate dai pastori verso le montagne. Solo di notte può avvenire questo tipo di intrusione anomala per la realtà cittadina e industriale, in cui la natura è soffocata dal cemento e dai fumi insalubri dell'esistenza contemporanea. Michelino, il più grande dei figli di Marcovaldo sfugge all'attenzione del padre e segue quei curiosi animali. Nei giorni successivi Marcovaldo apprende che il figlio sta bene e sta trascorrendo le giornate sulle montagne, ed è così che Marcovaldo invidia quasi Michelino, immaginando il figlio disteso sui prati al fresco, cullato da una natura generosa e prodiga di armonia e serenità. Al ritorno, però, Michelino fa emergere come la vita contadina sia altrettanto dura di quella urbana, dominata dalla fatica e dallo sfruttamento del lavoro che spegne ogni ardore e ogni possibilità di contemplazione di una natura che si rivela avara.

11 Il coniglio velenoso (Autunno)

Marcovaldo ruba, in un ospedale, un coniglio che è contaminato da virus. Vorrebbe ingrassarlo per Natale, o magari fare un allevamento, ma è subito ricercato e nel frattempo il coniglio scappa. Abituato alla gabbia, è disorientato: si aggira sui tetti, prima attratto da chi se lo vuole mangiare, poi quando si sparge l'allarme, cacciato o preso a fucilate. Il coniglio decide di farla finita e si lascia cadere nel vuoto, ma finisce dritto tra le mani di un pompiere. Caricato sull'ambulanza si ritrova in compagnia di Marcovaldo, sua moglie e i suoi figlioli, ricoverati in osservazione per una serie di vaccini.

12 La fermata sbagliata (Inverno)

A Marcovaldo piace molto il cinema. Una sera, uscendo dal cinema, si trova immerso in una nebbia fittissima. Va alla fermata del tram, prende il 30. Non si vede niente. Scende dal tram quando crede di essere arrivato ma ha sbagliato la fermata. Comincia a camminare, ma non riconosce niente: è perduto. Dopo essersi ubriacato in un'osteria mentre cercava di chiedere informazioni, arriva in un posto strano con luci nel suolo, trova uno strano autobus: entra. Alla fine scopre che non è un autobus: è un aereo che va a Bombay, Calcutta e Singapore!

13 Dov'è più azzurro il fiume (Primavera)

Marcovaldo, per fornire alla famiglia cibi non passati tra le mani di speculatori, cerca un posto dove l'acqua sia pura e non inquinata e i pesci sani e non avvelenati. Un giorno, in un fiume vicino al suo luogo di lavoro, Marcovaldo vede degli uomini pescare dei pesci. Una mattina presto va al fiume prima del lavoro, e pesca molte tinche. Sulla strada del ritorno, viene fermato da una guardia che gli impone di ributtare in acqua i pesci perché quell'acqua è inquinata dalle vicine fabbriche di vernice: ecco perché quell'acqua è di un azzurro così vivo. Marcovaldo rovescia la sporta piena di pesci nel fiume. Qualche tinca, ancora viva, guizza via tutta contenta.

14 Luna e gnac (Estate)

Marcovaldo e la sua famiglia vivono la notte ad intermittenza: venti secondi al chiaro di luna, alla ricerca di costellazioni, e venti secondi alla luce fosforescente dell'insegna pubblicitaria al neon della Spaak-Cognac. Una sera, mentre Marcovaldo cerca di illustrare ai figli le varie costellazioni, Michelino, guerriero armato di fionda e sassolini, con una sola raffica sconfigge lo "GNAC". Passano venti secondi, l'insegna non si accende e tutta la famiglia viene proiettata nello spazio buio e infinito, nella notte vera. La scritta luminosa sul tetto di fronte diceva solo "Spaak-Co". Ma il sogno dura molto poco e la mattina del secondo giorno arrivano gli elettricisti. Nel frattempo alla mansarda di Marcovaldo si presenta un agente pubblicitario, il dottor Godifredo, che dichiara di lavorare per la principale concorrente della Spaak, la Cognac-Tomawak. Così Marcovaldo firma un contratto che prevede la distruzione, da parte dei suoi figli, dell'insegna rivale ogni volta che questa fosse riparata. E la Spaak, travolta dai debiti per le continue riparazioni, fallisce.
La luna torna a splendere nel cielo di Marcovaldo fino a quando non arrivano gli elettricisti per montare la nuova insegna "Cognac-Tomawak", che segna la sconfitta di Marcovaldo e la vittoria della Natura artificiale. Ora le notti di Marcovaldo durano solo due secondi.

15 La pioggia e le foglie (Autunno)

Nella ditta in cui lavora, Marcovaldo si prende cura di una piantina posta nell'atrio. Messa in cortile, la pianta trae ogni giorno profitto dalla pioggia. Marcovaldo, per non trascurarla, la porta a casa; attraversa la città portando la piantina sulla sua bicicletta, inseguendo le nuvole. Nel giro di un fine settimana, la pianta cresce tanto da sembrare un albero. Diventata ingombrante nell'ingresso della ditta, Marcovaldo pensa che sia meglio restituirla al vivaio in cambio di una più piccola e ricomincia la corsa per la città senza decidersi ad imboccare la strada del vivaio. Cessata la pioggia, la pianta è come sfinita per la troppa acqua piovana. Ad una ad una lascia cadere le sue foglie che ingialliscono senza che Marcovaldo se ne accorga. Quando questo si ferma, si gira e si rende conto che della pianta non resta che un tronco privo di foglie.

16 Marcovaldo al supermarket (Inverno)

Marcovaldo, insieme alla sua famiglia, dopo il lavoro si dirige al supermarket ma non avendo soldi si limita a girare per i reparti senza comprare nulla. Un giorno gli viene l'impulso di riempire il carrello solo per il gusto di averlo pieno, ma quando viene annunciata l'imminente chiusura del supermarket la famiglia si precipita a svuotare i carrelli. Tuttavia la tentazione di riempirli è tale che più li vuotano e più li riempiono, finché non vedono che in una parte del supermarket ci sono lavori di ampliamento e vuotano i carrelli nella benna di una gru.

17 Fumo, vento e bolle di sapone (Primavera)

Ogni giorno il postino depone nelle cassette della posta un sacco di lettere. Tranne per Marcovaldo perché nessuno gli scrive mai: se non fosse ogni tanto per un'ingiunzione di pagamento della luce o del gas, la sua cassetta non servirebbe proprio a niente. I figli di Marcovaldo pensano di arricchirsi accaparrandosi, per poi rivenderli, i buoni pubblicitari dei detersivi che danno il diritto a ritirare campioni gratuiti. Però l'operazione fallisce. Le cose si complicano; la trasformazione dei buoni in merce va per le lunghe. Tra gli incaricati delle ditte inoltre non tarda a spargersi la voce dell'esistenza di una concorrenza sleale. Da un momento all'altro il detersivo diventa pericoloso come dinamite e per sbarazzarsene i bambini gettano la polvere nel fiume. Il sapone, sciogliendosi, diventa schiuma che, sotto l'azione del vento, libera bolle di sapone nell'aria, le quali a loro volta si confondono col fumo nero delle ciminiere. Poi le bolle svaniscono e non resta che il fumo nero delle ciminiere.

18 La città tutta per lui (Estate)

Ad agosto la città è vuota, nessuno le vuole più bene, ed è tutta per Marcovaldo. La domenica mattina, in giro, si ritrova in una città diversa, dove può camminare in mezzo alla strada e attraversare col rosso. Prende a seguire una fila di formiche, il volo di un calabrone. La città sembra occupata da abitatori fino allora sconosciuti. Marcovaldo capisce che il piacere non è tanto fare tutte quelle cose insolite, quanto il vedere tutto in un altro modo: le vie come fondovalli, o letti di fiumi in secca, le case come blocchi di montagne scoscese, o pareti di scogliera. Ma si imbatte in una troupe che gira un servizio giornalistico. A Marcovaldo sembra, per un momento, che la città di tutti i giorni abbia ripreso il posto di quella, per un momento, intravista o forse solamente sognata.

19 Il giardino dei gatti ostinati (Autunno)

La città dei gatti vive dentro alla città degli uomini. Una volta le due città coincidevano, uomini e gatti usavano gli stessi luoghi; oggi gli itinerari dei gatti devono sfruttare i passaggi lasciati tra palazzo e palazzo, a causa del forte traffico. Marcovaldo è amico di tutti i gatti che incontra e riesce ad intuire legami, intrighi, rivalità tra loro. Un giorno un suo "amico soriano" lo porta alla scoperta di un grande ristorante. Trascurando gli inviti del gatto che vuole guidarlo verso la cucina, Marcovaldo vede che al centro del salone c'è una peschiera dove nuotano le trote che dovranno essere cucinate; getta una lenza, cattura un pesce ma il soriano lo acchiappa in un baleno. Inseguendo il gatto giunge fino al giardino di una vecchia casa in rovina in mezzo alla città, piena di gatti. Marcovaldo suona alla porta per avere indietro la sua trota; dalla finestra si intravede un volto che a Marcovaldo sembra quello di un gatto. La vecchia padrona di casa è decisa a non ridargli alcunché e gli racconta che vorrebbe cambiare casa, ma i compratori sono spaventati dai gatti. Marcovaldo si accorge che è tardi e torna al lavoro. L'inverno successivo, i miagolii dei gatti attirano l'attenzione dei passanti: la vecchietta è morta. La primavera successiva iniziano i lavori per la costruzione di un moderno palazzo, ma i lavori sono continuamente ostacolati dai gatti e dagli altri animali della zona, che sembrano opporsi all'avanzare del cemento, a difesa del loro ultimo luogo di ritrovo.

20 I figli di Babbo Natale (Inverno)


Marcovaldo per conto della Sbav gira porta a porta vestito da Babbo Natale a portare regali, accompagnato dal figlio Michelino che è deciso a fare un regalo ad un bambino povero. Dopo aver fatto visita al figlio di un noto industriale, viziato e tanto ricco quanto solo e triste, Michelino, non avendo ben chiaro il concetto di bambino povero, ne riconosce uno in lui, così gli regala un martello, un tirasassi e dei fiammiferi con cui inizia a distruggere con gioia tutta la ricca casa. Il giorno dopo Marcovaldo si presenta al lavoro temendo di essere licenziato in tronco per l'accaduto, invece viene a sapere che l'industriale padre del bambino viziato è rimasto fortemente colpito da quei regali, gli unici in grado di far divertire suo figlio, tanto che la Sbav il giorno stesso cambia tipo di produzione lanciando il «regalo distruttivo», che tra l'altro ha anche il pregio di distruggere altri oggetti «accelerando il ritmo dei consumi e vivacizzando il mercato».

Siddhartha

Andare alla ricerca della felicità, dell'IO profondo, cercare la pace interiore e spirituale è il viaggio che il protagonista percorre per la serenità.



TITOLO: Siddhartha
AUTORE: Hermann Hesse
EDITORE: Adelphi
PAGINE: 176
PREZZO: Lire 6.000


















TRAMA


Il libro narra la vita di Siddharta, giovane indiano, che cerca la sua strada nei più svariati modi. Fin dall'inizio il narratore si dimostra esterno, benché faccia intuire che la storia di Siddharta sia tra le più particolari, non esprime un suo punto di vista. Si può dire che la focalizzazione sia quella del giovane. Siddharta inizia il suo viaggio affiancato dall'inseparabile amico d'infanzia, Govinda, il quale lo ha sempre visto come un saggio. I due decidono di andare a vivere con i "Samana", asceti che vivono di poco o nulla, che imparano a immedesimarsi con tutto ciò che incontrano: così fa infatti Siddharta.
Dopo aver vissuto con loro, lui e Govinda decidono di andare a vedere il Buddha Gotama, alla setta del quale Govinda decide di aggregarsi. Siddharta rimane quindi solo e arriva in una città, dove conosce la bella Kamala. Il personaggio, che dapprima sembrava “immacolato”, si dimostra soggetto alle debolezze umane, lui che considerava male quei comportamenti e che se ne considerava superiore. Dopo anni e anni passati con Kamala, Siddharta si dispera, capisce il suo errore e scappa. Kamala abbandonata dall'uomo che ama e da cui sa di non essere amata porta in grembo un figlio destinato a chiamarsi come il padre.
Anche senza dichiararlo apertamente, l'autore lascia intendere che Siddharta incontrerà il figlio. Questo succederà solo dopo un lungo periodo di transizione dell'ormai uomo Siddharta che, dilaniato dai rimorsi per il suo stile di vita degli ultimi anni, ipotizza per sé il suicidio come forma estrema di purificazione. Ma il caso, forse il destino, lo aiuta: prima desiste dal suo intento grazie alla meditazione dell'Om, poi incontra Govinda divenuto monaco buddhista. L'amico subito non lo riconosce, anzi si ferma pensando di aiutare uno sconosciuto. L'incontro tra i due è toccante, ma quando si separano si ha di nuovo la sensazione che si rivedranno. Siddharta ha ritrovato un motivo di vita e cerca una nuova strada, che trova sulle sponde dello stesso fiume nel quale pensava di porre fine alla sua vita.
A quel punto si imbatte in un barcaiolo che insegna al ragazzo l'essenza dell'acqua, mostrandogli il proprio spirito, come se il fiume fosse un'entità viva. Vasudeva, questo il suo nome, ci abita e condivide con Siddharta l'idea che il fiume sia vivo, che parli, che insegni. Siddharta decide di rimanere con Vasudeva da cui imparerà molto, anche durante i lunghi silenzi. Un'altra scena toccante si ha con il passaggio di Kamala che è in viaggio per trovare Gotama, il Buddha ormai morente; con lei c'è il piccolo Siddharta. Un serpente morde la madre, il piccolo piange e richiama l'attenzione del padre che, riconosciuta la donna, cerca di aiutarla, ma tutto è inutile: ora Siddharta ha un figlio da crescere.
Come in tutti i romanzi c'è l'antagonista dell'eroe, ma è un paradosso: di Siddharta è lo stesso figlio. Il giovane ragazzo è ribelle, non lavora, si annoia, non vuole imparare: totalmente il contrario del padre. Dopo anni di sofferenza, il figlio scappa e Siddharta è costretto a lasciarlo andare: sono troppo diversi per poter convivere. Questo episodio, inoltre, induce Siddharta a pensare a quando anche lui aveva abbandonato suo padre e al dolore che gli aveva sicuramente procurato. Ascoltando la voce del fiume, tuttavia, il dolore di Siddharta si placa gradualmente e l'uomo ottiene una maggiore comprensione del mondo e di se stesso che arriverà al culmine con l'illuminazione.

Vedendo che finalmente l'amico ha raggiunto la sua meta, anche il vecchio barcaiolo lascia Siddharta, recandosi nella foresta. E qui si chiude il libro, nel rincontro di Siddharta e Govinda, ormai vecchi, vissuti, sapienti. L'amico ancora una volta non riconosce Siddharta, invecchiato, cambiato. Si raccontano le loro vite, ma soprattutto Govinda chiede all'amico quale sia, dopo tutti questi anni, la sua filosofia e Siddharta attua un monologo in cui esprime il suo insegnamento morale, come una lezione di vita su come giudicare per essere giudicati, su come cercare la conoscenza e su come anche il più puro degli uomini si possa ritrovare nel peccato. Alla fine Govinda si accorge, con una sorta di visione, che Siddharta è anch'egli un buddha, ed è ormai unito all'ātman (l'anima del mondo), avendo raggiunto il nirvana in vita, come il suo maestro Gotama (e il barcaiolo Vasudeva). Il romanzo termina con un profondo inchino di rispetto di Govinda verso Siddharta.

Hermann Hesse




Il 2 Luglio 1877 nasce, a Calw nello Shwarwald (Württemberg, Germania), Hermann Hesse, uno degli scrittori più letti del secolo. Il padre, Johannes, ex missionario e direttore editoriale è un cittadino tedesco nato in Estonia mentre la madre, Maria Gundert, è nata in India da padre tedesco e madre svizzero-francese. Da questo singolare impasto di culture si può forse far rinvenire la successiva attrazione che Hesse svilupperà per la visione del mondo orientale, la quale avrà la sua massima espressione nel celeberrimo "Siddartha", un vero e proprio "cult" per generazioni di adolescenti e no. Non si può ad ogni modo tralasciare l'annotazione che, a conti fatti, la famiglia degli Hesse impartì una severa educazione pietistica al figlio,
tale da provocare non poche reazioni negative nel sensibile ragazzo. Alcuni esempi di questa insofferenza si possono rinvenire direttamente per mezzo dell'autore, attraverso gli schizzi autobiografici che ci ha lasciato e in cui descrive le reazioni negative ai doveri imposti e a qualsiasi "comando familiare", prescindendone dalla giustezza come dalla nobiltà delle intenzioni.
Hesse era un bambino oltremodo sensibile e testardo, che creava ai genitori e agli educatori notevoli difficoltà. Già nel 1881 la madre intuì che il figlio sarebbe andato incontro a un futuro non ordinario. Nello stile di pensiero che le era consono informò il marito del proprio timore: "Prega insieme a me per il piccolo Hermann [...] Il bambino ha una vitalità e una forza di volontà così decisa e [...] un'intelligenza che sono sorprendenti per i suoi quattro anni. Che ne sarà di lui? [...] Dio deve impiegare questo senso orgoglioso, allora ne conseguirà qualcosa di nobile e proficuo, ma rabbrividisco solo al pensiero per ciò che una falsa e debole educazione potrebbe fare del piccolo Hermann" (A.G., p. 208).
Un'altra figura di notevole rilievo nella crescita del piccolo Hermann è quella del nonno materno Hermann Guntert, anche lui missionario in India fino al 1859, ed erudito poliglotta conoscitore di vari dialetti indiani. Fra l'altro, aveva scritto una grammatica, un dizionario, e tradotto il Nuovo Testamento nella lingua malajala. L'accesso alla ricca biblioteca del nonno,insomma, sarà essenziale per la formazione extrascolastica di Hesse, soprattutto nel periodo delle crisi giovanile, anch'esse ben documentate dagli scritti pervenuti, nonché leggibili in controluce nelle gesta e nei moti dell'animo che costituiscono i personaggi dei suoi romanzi.
Malgrado le migliori intenzioni, dunque, i metodi pedagogici dei genitori non ottennero di "addomesticare" il bambino così poco docile, pur tentando, conformemente ai principi del pietismo, di frenare già nei primi anni quell'ostinazione ribelle che gli era propria. Così Johannes Hesse decise, trovandosi con la famiglia a Basilea e non avendo altra soluzione, di lasciar educare il bambino irrequieto al di fuori della famiglia. Nel 1888 entra nel ginnasio di Calw, che frequenta controvoglia pur risultando fra i primi della classe. Nel frattempo prende lezioni private di violino, ripetizioni di latino e greco dal padre e si sottopone, da febbraio fino a luglio del 1890, sotto la guida del rettore Bauer (uno fra i pochi insegnanti che Hesse stimava) a un programma di studio finalizzato al superamento dell'esame regionale. Il suo futuro appariva predeterminato. Avrebbe percorso una strada comune a molti figli di pastori in Svevia: attraverso l'esame regionale in seminario, quindi alla facoltà teologica-evangelica di Tubinga. Le cose tuttavia dovevano andare altrimenti. Supera senza difficoltà l'esame a Stoccarda e accede nel settembre del 1891 al seminario di Maulbronn.
Era un istituto di formazione in cui convivevano cultura medievale cistercense, cultura classica e pietismo. Tuttavia, sei mesi più tardi, senza apparente ragione, il ragazzo fugge dall'istituto. Viene ritrovato il giorno successivo e riportato al seminario. I suoi insegnanti lo trattano con comprensione ma lo sottopongono a otto ore di carcere "per aver lasciato senza autorizzazione l'istituto". Hesse, però, comincia a soffrire di gravi stati depressivi, tali da indurre gli insegnanti a caldeggiare un suo ritorno a casa. I genitori non trovano di meglio che inviarlo per una "cura", al pastore Christoph Blumhardt. La conseguenza è un tentativo di suicidio, che sarebbe riuscito se il revolver non si fosse inceppato. Hermann viene quindi ricoverato nella clinica per malati di nervi, un luogo di fatto simile ad un manicomio, a Stetten.
Questo intrecciarsi di motivi esistenziali diversi getta notevole luce sulla sua attività narrativa. La vita e l'opera di Hermann Hesse, infatti, sono percorse interamente dal contrasto fra tradizione familiare, personalità e coscienza individuale e realtà esterna. Il fatto che lo scrittore sia riuscito, nonostante i ripetuti conflitti interiori e in contrasto con le decisioni familiari, ad assecondare la propria volontà, non può essere spiegato soltanto con la caparbietà e la forte consapevolezza della propria missione.
Fortunatamente i genitori gli concedono, dopo le sue insistenti preghiere, di ritornare a Calw, dove frequenterà dal novembre 1892 sino all'ottobre 1893 il ginnasio Canstatter. Non porterà a termine comunque l'intero ciclo di studi ginnasiali. All'esperienza scolastica seguirà un brevissimo apprendistato come libraio a Esslingen: dopo appena quattro giorni Hermann abbandona la libreria; viene ritrovato dal padre in giro per le strade di Stoccarda, quindi spedito in cura dal dottor Zeller a Winnenthal. Qui trascorre alcuni mesi dedicandosi al giardinaggio, finché ottiene il permesso di tornare in famiglia.
Hermann è costretto a seguire un apprendistato presso l'officina di orologi da campanile di Heinrich Perrot a Calw. In questo periodo progetta di fuggire in Brasile. Un anno dopo abbandona l'officina e incomincia nell'ottobre 1895 un apprendistato come libraio presso Heckenhauer a Tubinga, che durerà tre anni. Non mancheranno tuttavia in futuro crisi interiori ed esteriori, di natura esistenziale o provocate dal lavoro, così come falliranno anche i suoi tentativi di adeguarsi a un'esistenza dall'aspetto "borghese" o di condurre semplicemente un'esistenza normale. Gli eventi di quel periodo, che già appartiene alla storia, riportano Hesse da Tubinga per alcuni anni a Basilea (sempre come libraio si occuperà anche di libri d'antiquariato), quindi appena sposato (già libero scrittore) sulle rive del lago di Costanza a Gaienhofen, fino a che, al ritorno da un viaggio in India, si trasferirà definitivamente in Svizzera, prima a Berna, poi nel Canton Ticino.
Nel 1924 ottiene nuovamente la cittadinanza svizzera che aveva perduto per sostenere l'esame regionale nel Württemberg. Divorzia sia dalla prima che dalla seconda moglie, entrambe svizzere. Dal primo matrimonio con Maria Bernoulli (1869-1963) nasceranno tre figli: Bruno (1905), Heiner (1909) e Martin (1911). Il secondo matrimonio con Ruth Wenger (1897), di lui più giovane di vent'anni, dura solo alcuni anni. Soltanto la sua terza moglie, Ninon Ausländer (1895-1965), divorziata Dolbin, una storica dell'arte, austriaca e di origine ebraica, rimase vicina al poeta sino alla fine. Dopo i primi successi letterari Hesse trovò una schiera di lettori sempre crescente, innanzitutto nei paesi di lingua tedesca, poi, prima della Grande guerra, negli altri paesi europei e in Giappone, e dopo l'assegnazione del Nobel per la letteratura (1946) in tutto il mondo. Il 9 agosto del 1962 a Montagnola moriva in seguito a una emorragia cerebrale.
L'opera di Hesse, in qualche modo complementare a quella del suo grande coetaneo Thomas Mann, esprime, in una prosa classicamente composta, ma ricca di accensioni liriche, una vasta, articolata dialettica tra sensualità e spiritualità, ragione e sentimento. Il suo interesse per le componenti irrazionalistiche del pensiero e per certe forme del misticismo orientale anticipa, sotto vari aspetti, gli atteggiamenti delle ultime avanguardie statunitensi ed europee e spiega la nuova fortuna che i suoi libri hanno trovato presso le giovani generazioni successive.

Una selezione delle opere di Hermann Hesse

  • - Il lupo della steppa
  • - Il viandante
  • - Poesie
  • - Sull'amore
  • - Dall'India
  • - Peter Camenzind
  • - Leggende e fiabe
  • - Demian
  • - Knulp
  • - Il giuoco delle perle di vetro
  • - Siddharta
  • - False vocazioni
  • - L'ultima estate di Klingsor
  • - Narciso e Boccadoro

sabato 12 maggio 2018

Un salto in BIBLIOTECA - Maggio 2018



Maggio in BIBLIOTECA!!!!!!!!!

Ho deciso che da Maggio ricomincio a riprendere il ritmo nelle letture e cercare per quest'anno di migliorare la mia media di libri letti durante l'anno, anche se ho iniziato in ritardo.

Comunque questa volta ho preso ben 3 libri in biblioteca, proprio per darmi la carica nella lettura. I libri li ho scelti in base al mio stato d'animo in questo momento della mia vita, ed è per ciò che ho preso un libro di "meditazione e ricerca dell'Io", uno di "riscatto nella vita" e per ultimo uno di "stagioni".

ECCO I LIBRI PRESI IN PRESTITO:





sabato 5 maggio 2018

La luna e i falò

Ritornare nel proprio paese di infanzia è sempre molto emozionante, sopratutto perchè ti rendi conti che  quello che hai lasciato a volte non è cambiato per niente in tutti questi anni.


TITOLO: La luna e i falò
AUTORE: Cesare Pavese
EDITORE: La biblioteca di Repubblica
PAGINE: 160
PREZZO: € 4,90


















TRAMA


La storia, raccontata in prima persona, non concerne solo il protagonista, di cui viene detto solo il soprannome Anguilla, ma tanti altri personaggi che entrano in relazione con lui, in un paese della valle del Belbo che non viene mai nominato ma che è Santo Stefano Belbo.
Il romanzo è un misto tra passato e presente e proprio per questo non è narrato nei minimi dettagli, ma vengono raccontati eventi che non sono (apparentemente) collegati tra loro, se non dai pensieri e dalle riflessioni del protagonista.
La storia inizia quando Anguilla, tornato emigrante dall'America dopo la Liberazione, ritorna con il pensiero al momento in cui neonato era stato abbandonato sugli scalini del Duomo di Alba e quindi portato all'ospedale di Alessandria, dove era stato adottato da Padrino e da Virgilia che per questa adozione ricevevano una mesata di cinque lire.
Quando, successivamente alla morte di Virgilia e a una grandinata che distrusse la piccola vigna, Padrino decise di vendere il casotto dove vivevano, Anguilla si trasferì alla fattoria della Mora, dove iniziò a lavorare per la prima volta; c'era benessere in quel casale insieme a sor Matteo e alle tre figlie: Irene, Silvia, Santa (la più piccola e bella). Pur essendosi affezionato a loro, tornato dall'America, preferisce non rivedere quel luogo.
In trentadue capitoli il lettore si perde nei ricordi, spesso tristi, che Anguilla rivive con l'amico Nuto e capisce quanto sia importante per ognuno avere un paese, una famiglia, un punto di riferimento che leghi alla vita; di questo Anguilla si rende conto quando, lontano dalla sua valle, viene richiamato alla sua patria non da un amico o dalla patria stessa, bensì da quel senso di appartenenza al suo paese che lui si porta dentro insieme a tanta nostalgia.
Per prima cosa, invece, Anguilla va a vedere la casa del Padrino, rimasta uguale, e conosce il nuovo proprietario, il Valino, e suo figlio Cinto, un ragazzo gracile e solitario. Quest'ultimo gli fa ricordare i tempi in cui era ragazzo, quando Nuto, più grande di lui, trattandolo sin da allora da amico, cercava di insegnargli tutto ciò che sapeva; Anguilla vuole essere per Cinto ciò che Nuto era stato per lui.
Trascorrono molto tempo insieme, nasce anche un'amicizia tra loro e Cinto sa di potersi fidare di Anguilla: proprio per questo, quando il Valino, in preda ad un raptus di follia, uccide la nonna e la zia, dà fuoco alla casa e si suicida impiccandosi, il ragazzo va subito da Anguilla, che insieme a Nuto cerca di tranquillizzarlo.
Anguilla sa che Irene e Silvia, come tanti altri, sono morte ed entrambe male, ma gli rimane oscura la sorte di Santa, che Nuto gli rivela solo alla fine: di notevole bellezza sin da quando era piccola, la donna, inquieta, era diventata spia prima dei tedeschi e dopo dei partigiani, poi ancora dei tedeschi e dei repubblichini; proprio allora era stata giustiziata, ancora in giovane età.
È con la scoperta di questa triste vicenda che si conclude il romanzo, ma sicuramente non il viaggio di Anguilla. Da ragazzo pensava che il paese in cui viveva fosse tutto il mondo, ma ora che, viaggiando, ha capito come veramente è fatto il mondo, si rende conto che il proprio paese è in fondo la propria famiglia, «un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Come lui stesso dice: «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via».

Anguilla però aveva sentito il bisogno di tornare, perché quegli stessi vigneti, alberi di fichi e valli non li ha trovati da nessun'altra parte; appena giunge alla valle del Salto si accorge che nulla è cambiato: ci sono gli stessi suoni, gli stessi odori e gli stessi sapori che il protagonista si è sempre portato dentro. È vero che lui ritrova la stessa vita di un tempo, ma sicuramente non le stesse persone: ritrova solo Nuto, il suo più caro amico e mentore, a cui rivela tutti i suoi pensieri e con il quale si perde nei ricordi passati, a volte anche allegri e spensierati, spesso tristi. Alla ricerca, sempre, anche inconsapevolmente, della consapevolezza: se non si può aggiustare il mondo - come vorrebbe la coscienza sociale di Nuto, che infine si scopre propria anche del protagonista -, almeno conoscere: gli archetipi, i ritmi, la terra, gli uomini e le loro storie, più spesso disperate, sempre inquiete.

Cesare Pavese




Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se il giovane scrittore rimpiangerà sempre con malinconia i luoghi e i paesaggi del suo paese, visti come simbolo di serenità e spensieratezza e come luoghi dove trascorrere sempre le vacanze.
Una volta nella città piemontese di lì a poco il padre muore; questo episodio inciderà molto sull'indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso. Già nell'età dell'adolescenza Pavese manifestava attitudini assai diverse da quelle dei suoi coetanei. Timido ed introverso, amante dei libri e della natura, vedeva il contatto umano come il fumo negli occhi, preferendo lunghe passeggiate nei boschi in cui osservava farfalle e uccelli. Rimasto dunque solo con la madre, anche quest'ultima aveva subito un duro contraccolpo alla perdita del marito. Rifugiatasi nel suo dolore e irrigiditasi nei confronti del figlio, questa comincia a manifestare freddezza e riserbo, attuando un sistema educativo più consono ad un padre "vecchio stampo" che a una madre prodiga di affetto. Un altro aspetto inquietante che si ricava dalla personalità del giovane Pavese è la sua già ben delineata "vocazione" al suicidio (quella che lui stesso chiamerà il "vizio assurdo"), che si riscontra in quasi tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all'amico Mario Sturani.
Il profilo e le ragioni del temperamento pavesiano, segnato da profondi tormenti e da una drammatica oscillazione fra il desiderio di solitudine e il bisogno degli altri, è stato letto in più modi: per alcuni sarebbe il fisiologico risultato di un'introversione tipica dell'adolescenza, per altri la risultante dei traumi infantili sopra richiamati. Per altri ancora vi si cela il dramma dell'impotenza sessuale, forse indimostrabile ma che trapela in controluce in alcune pagine del suo celebre diario "Il Mestiere di vivere". Compie gli studi a Torino dove ha come professore al liceo Augusto Monti, figura di grande prestigio della Torino antifascista e al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono molto. Durante questi anni Cesare Pavese prende anche parte ad alcune iniziative politiche a cui aderisce con riluttanza e resistenza, assorbito com'è da problematiche squisitamente letterarie. Successivamente si iscrive all'Università nella Facoltà di Lettere. Mettendo a frutto i suoi studi di letteratura inglese, dopo la laurea (presenta la tesi "Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman"), si dedica a un'intensa attività di traduzioni di scrittori americani (come ad esempio Sinclair Lewis, Herman Melville, Sherwood Anderson).
Nel 1931 Pavese perde la madre, in un periodo già pieno di difficoltà. Lo scrittore non è iscritto al partito fascista e la sua condizione lavorativa è molto precaria, riuscendo solo saltuariamente a insegnare in istituti scolastici pubblici e privati. Dopo l'arresto di Leone Ginzburg, un celebre intellettuale antifascista, anche Pavese viene condannato al confino per aver tentato di proteggere una donna iscritta al partito comunista; passa un anno a Brancaleone Calabro, dove inizia a scrivere il già citato diario "Il mestiere di vivere" (edito postumo nel 1952). Intanto diviene, nel 1934, direttore della rivista "Cultura".
Tornato a Torino pubblica la sua prima raccolta di versi, "Lavorare stanca" (1936), quasi ignorata dalla critica; continua però a tradurre scrittori inglesi e americani (John Dos Passos, Gertrude Stein, Daniel Defoe) e collabora attivamente con la casa editrice Einaudi. Il periodo compreso tra il 1936 e il 1949 la sua produzione letteraria è ricchissima. Durante la guerra si nasconde a casa della sorella Maria, a Monferrato, il cui ricordo è descritto ne "La casa in collina". Il primo tentativo di suicidio avviene al suo ritorno in Piemonte, quando scopre che la donna di cui era innamorato nel frattempo si era sposata. Alla fine della guerra si iscrive al Pci e pubblica sull'Unità "I dialoghi col compagno" (1945); nel 1950 pubblica "La luna e i falò", vincendo nello stesso anno il Premio Strega con "La bella estate".
Il 27 agosto 1950, in una camera d'albergo a Torino, Cesare Pavese, a soli 42 anni, si toglie la vita. Lascia scritto a penna sulla prima pagina di una copia de "I dialoghi con Leucò", prefigurando il clamore che la sua morte avrebbe suscitato: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi".

Opere di Cesare Pavese

  • La bella estate
  • Dialoghi con Leucò
  • Poesie
  • Tre donne sole
  • Racconti
  • Lotte di giovani e altri racconti 1925-1939
  • La collana viola. Lettere 1945-1950
  • Letteratura americana e altri saggi
  • Il mestiere di vivere (1935-1950)
  • Dal carcere
  • Il compagno
  • La casa in collina
  • Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
  • Poesie del disamore
  • Prima che il gallo canti
  • La spiaggia
  • Paesi tuoi
  • Feria d'agosto
  • Vita attraverso le lettere
  • Lavorare stanca
  • La luna e i falò
  • Il diavolo sulle colline